CAPITOLO 1 – Lo sviluppo del soft-power russo
In russo si chiama myagkaya sila, traduzione letterale di un concetto espresso per la prima volta da Joseph Nye nel 1990, e successivamente rielaborato nel 2004, fino a diventare uno dei concetti più importanti nelle relazioni internazionali, quello di soft power, ovvero “l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere, attrarre e cooptare” tramite risorse intangibili quali “cultura, valori e istituzioni della politica”. Un’abilità che in politica estera può essere più efficace della coercizione e può portare a un dato paese rapporti commerciali e diplomatici favorevoli da parte di altri attori internazionali.
Cos’è il soft power
Secondo la tesi di Nye, il successo del soft power dipende direttamente dalla reputazione del paese a livello internazionale. Ad esempio, valori quali la libertà, i diritti umani, la democrazia sono stati – e in taluni casi sono ancora – una potente arma di soft power per gli Stati Uniti, veicolati e diffusi dalle televisioni via satellite, dal cinema, dai media e dalla cultura di massa. Altri strumenti di soft power sono la lingua, l’arte, la musica e la moda, la cucina e i paesaggi ma anche l’efficienza tecnologica, il rispetto delle leggi, lo stato sociale. Anche l’Unione Sovietica aveva un proprio soft power in quanto modello ideale di stato socialista.
L’elaborazione di tale concetto, come si è visto, è assai recente eppure è oggi imprescindibile per qualunque stato intenda proporsi come potenza locale, regionale o mondiale. Eppure sono pochi i paesi che sono riusciti a elaborare strategie di soft power efficaci. La Russia è uno di questi.
Il ritardo russo
In Russia si è compresa tardi l’importanza del soft power nelle relazioni internazionali, e il modo in cui tale concetto è stato declinato è assai peculiare. Anzitutto perché il Cremlino ha sempre considerato il soft power un tipico concetto americano, un’invenzione buona per il mondo occidentale ma senza nessuna reale implicazione per la Russia. In secondo luogo perché, quando ha deciso di svilupparlo, lo ha inteso come strumento di aggressione e non di attrazione trasformandolo quindi anch’esso in hard power.
La Russkiy Mir foundation, la lingua e la politica
La lingua è stata il primo strumento di soft power russo: parlata da 260 milioni di persone, il russo è lingua che permette l’accesso a una delle più ricche letterature mondiali e mantiene un ruolo rilevante nell’area post-sovietica. La Russkiy Mir Foundation, istituita nel 2007 per volere di Vladimir Putin, si rivolgeva proprio ai paesi dell’ex-Unione Sovietica allo scopo di rinsaldare, attraverso la diffusione della lingua e della cultura russa, il legame tra Mosca e i suoi vecchi satelliti. Il russo era infatti ancora la lingua franca più diffusa nell’Asia centrale, nel Caucaso e in alcune aree dell’Europa orientale. A questo intento “attrattivo” la fondazione univa la volontà di riaccendere gli animi delle minoranze russe all’estero allo scopo di farne una “quinta colonna” utile agli interessi diplomatici e commerciali di Mosca. Gli sforzi maggiori furono compiuti nel Baltico attraverso il finanziamento di associazioni culturali, revival folkloristici, movimenti politici. Il maggiore attivismo dei russofoni del Baltico ha, nel tempo, consentito a Mosca di intervenire negli affari interni di quei paesi con la motivazione di voler tutelare gli interessi delle minoranze.
Presto il Cremlino comprese l’importanza di diffondere la conoscenza della lingua e della cultura russa anche al di fuori dello spazio post-sovietico: sedi della Russkiy Mir furono aperte in tutta Europa al fine di promuovere, insieme agli scambi a livello universitario, l’immagine di una “nuova” Russia liberale ed europea. Immagine che poco si adattava alla realtà di un paese in cui i giornalisti venivano uccisi impunemente ma che serviva a rendere presentabili le ambizioni di Mosca ad essere potenza regionale in un’ottica multipolare delle relazioni internazionali.
Potere duro in guanti di velluto
Fin dall’inizio, dunque, l’idea russa di soft power si riduceva a una sola delle sua parti costitutive: la diplomazia internazionale. Nel concetto elaborato da Nye il soft power si sviluppa sia attraverso le iniziative della stato sia per via della società civile. Quest’ultima, grazie allo sviluppo del “genio” nazionale, ha una grande importanza nella realizzazione di un efficace soft power: si pensi alla musica britannica, alla poesia e letteratura francese, alla moda italiana. Tutte cose che però non possono svilupparsi in un paese repressivo. Il Cremlino, espressione di un potere autoritario, non poteva favorire questo tipo di soft power e anzi, limitando l’operato di ONG locali e straniere, ha spesso impedito la maturazione di una società civile russa. Così il soft power nella versione di Mosca non poteva che diventare un’arma della diplomazia, una versione “morbida” dell’hard power e non un’alternativa ad esso. E’ quello che Marcel Van Herpen ha definito “hard power in guanti di velluto”.
L’anno della svolta
A dispetto dell’apparente continuità, la politica interna ed estera di Vladimir Putin si deve dividere in prima e dopo il 2010. In quell’anno infatti la sua leadership viene messa in discussione da alcuni importanti esponenti del potere russo, tra cui l’allora ministro delle Finanze, Aleksey Kudrin, i quali – forti anche del calo registrato nei consensi da parte di Putin – proponevano un “putinismo senza Putin” individuando in Medvedev il loro campione. Una crisi che ha spinto Putin ha rafforzare la verticale del potere, allontanando i suoi avversari politici e cercando di riconquistarsi il favore dell’opinione pubblica attraverso retoriche patriottiche e nazionaliste. Un capillare controllo dei media nazionali ha consentito al Cremlino di riguadagnare i consensi perduti, ma una volta avviata la macchina della propaganda ha saputo rivolgersi anche all’esterno del paese.
Soft power e informazione
I media hanno giocato, nel sistema di potere putiniano, un ruolo sempre più centrale. Se fino al 2005 l’influenza russa nel mondo ha usato canali di soft power aggressivo, come nel caso della Russkiy Mir Foundation, dalla metà dello scorso decennio è stata l’informazione a diffondere “le ragioni di Mosca” all’estero sia attraverso la promozione dell’eccellenza ed eccezionalità della cultura e della società russa, sia attraverso una sempre maggiore manipolazione dei fatti. Soft power aggressivo e manipolazione della realtà sono gli ingredienti della futura “infowar“ del Cremlino, resasi più impetuosa dopo il 2008, quando la guerra in Georgia, prima, e la rivoluzione ucraina, poi, hanno alzato il livello dello scontro politico con gli Stati Uniti e l’Europa.
In tal senso parlare di “propaganda” non è fuori luogo. Il sistema dell’informazione russo verrà sempre più centralizzato e verticalizzato, rispondendo direttamente al Cremlino il quale non sarà solo proprietario dei mezzi di informazione ma ne stabilirà direttamente l’agenda. Nella prossima “puntata” vedremo come si è sviluppato il sistema dei media russo dal 2005 al 2013 per poi affrontare, nella terza e ultima parte, gli sviluppi più recenti.
CAPITOLO 2 – L’ascesa di Russia Today
Lo sviluppo di un sistema di informazione integrato ed efficace rivolto verso l’occidente conosce un’accelerazione a partire dal 2005, anno in cui è nata Russia Today e si sviluppa due anni dopo con l’avvio del progetto editoriale Russia beyond the Headlines. In questa fase elementi di persuasione e miglioramento della reputazione russa nel mondo, tipici delle del soft power, sono accompagnati (quando non amalgamati) a strategie di influenza attraverso l’uso dei media che, soprattutto con Russia Today, si profilano quale concreto strumento di propaganda.
Russia beyond the Headlines
Sebbene successivo rispetto a Russia Today, il progetto Russia beyond the Headlines prosegue nello sviluppo di strategie di soft power attraverso l’uso dei media avviate nel decennio precedente e, in tal senso, ha caratteristiche meno aggressive rispetto a Russia Today, di cui parleremo fra poco.
Nato negli anni Duemila come supplemento giornalistico in lingua russa della Rossiyskaya Gazeta (la gazzetta ufficiale russa) raccoglieva dichiarazioni pubbliche dei politici russi e offriva la versione ufficiale dei principali fatti economici e politici del paese. Dal 2007 si è cominciato a tradurre in inglese questo supplemento inviandolo a una serie di giornali europei convenzionati: dal Washington Post al New York Times, dal Daily Telegraph a Le Figaro, dal Suddeutsche Zeitung a La Repubblica. Lo scopo, assai ambizioso, era quello di diffondere un’immagine liberale della Russia attraverso i più influenti giornali occidentali. Si trattava di otto pagine di notizie e commenti in cui erano presenti anche articoli critici verso il Cremlino: un modo per mostrare la liberalità del nuovo corso politico russo. Peccato che tali articoli non fossero presenti nella versione originale. Pubblicati come inserto con il titolo di Russia Now, in inglese, e Russia Oggi, in italiano, questi supplementi avevano lo scopo di persuadere l’opinione pubblica occidentale del potenziale attrattivo della nuova Russia putiniana mostrando una liberalità e una pluralismo che, in realtà, non c’erano: vale la pena ricordare come, nel 2006, la morte di Anna Politkovskaja rivelasse al mondo la brutalità del regime putiniano.
Russia Today, nel salotto del Cremlino
Russia Today (RT) è stata il primo strumento di propaganda russa verso l’estero. La rete televisiva, sponsorizzata dal Cremlino, nata del 2005 su iniziativa dell’allora primo ministro Mikhail Lesin, fu guidata inizialmente da Margarita Simonyan, venticinquenne giornalista di origine armena. Grazie all’utilizzo della lingua inglese, RT divenne in poco tempo un competitor della CNN e della BBC, ma a differenza di queste due emittenti RT non offriva un’informazione indipendente. Simonyan veniva infatti ricevuta, ogni venerdì, nel salotto politico di Vladislav Surkov, noto come “l’ideologo di Putin”, con il quale si accordava per il palinsesto settimanale.
Dopo il 2010 il Cremlino decide di aumentare gli investimenti in RT aprendo sedi locali in circa venti paesi esteri e portando a duecento il numero di dipendenti. Uno staff globale per un pubblico globale che, nel 2013, arrivò a due milioni di telespettatori. Con l’avvio della cosiddetta “Rivoluzione di Maidan” e l’inizio della crisi ucraina, il Cremlino ha finanziato una versione in lingua tedesca e una in lingua francese.
Formalmente Russia Today è un’emittente di stato russa che opera con una linea editoriale autonoma, tuttavia fin dal 2005 è legata a RIA Novosti, agenzia di stampa nazionale, alle dirette dipendenze del governo. Il legame tra queste due realtà si è palesato quando, nel 2012, la sede di entrambe le agenzie è stata trasferita all’interno dello stesso palazzo a Mosca. Nel 2013 RIA Novosti è stata sciolta per dar vita a una nuova agenzia di stampa, Rossiya Segodnya (che significa “Russia oggi”), al cui vertice è stata nominata proprio Margarita Simonyan, già direttrice di Russia Today.
Un segno evidente di quanto i media e le agenzie pubbliche russe siano sempre più accentrate e rispondano a una verticalizzazione del potere operata dal Cremlino. Nella storia della recente propaganda russa, ci troviamo di fronte a tre progetti editoriali che, oltre al nome, condividono la missione di diffondere una verità alternativa dei fatti internazionali e interni alla Russia influenzando l’opinione pubblica mondiale. Questi progetti sono il supplemento Russia Now (noto in Italia come Russia oggi); l’emittente Russia Today (RT, anch’essa nota come Russia Oggi) e l’agenzia Rossiya Segodnya (in italiano, Russia Oggi): nomi simili che creano confusione ma che, in fondo, obbediscono alla stessa linea editoriale e testimoniano una progettualità di lungo periodo da parte del Cremlino.
Esempi di propaganda
“Mai risparmiare su polizia e propaganda”, questo vecchio motto sovietico bene si attaglia alla moderna Russia putiniana. Con ben 23 milioni di dollari investiti nel 2005, Russia Today è stato il più grande investimento russo di sempre nel campo dei media. Nel 2007 l’emittente ha ricevuto un finanziamento di 80 milioni di dollari e di altri 120 milioni nel 2008, fino ai 380 milioni del 2011. Soldi ben spesi, poiché Russia Today è diventata, tra il 2008 e il 2012, la rete straniera in lingua inglese più vista negli Stati Uniti e nel Regno Unito, superando Al-Jazeera, France 24 e Deutsche Welle.
Quando, nel 2008, la rete televisiva uscì con il titolo “Genocidio” parlando degli osseti che, secondo l’emittente, stavano venendo sterminati dai georgiani, buona parte dell’opinione pubblica mondiale si convinse della natura umanitaria dell’intervento militare russo in Georgia. Allo stesso modo RT si prodigò nella diffusione della falsa notizia che il presidente Obama, da poco eletto, non fosse nato negli Stati Uniti (e quindi non sarebbe stato eleggibile).
Quando nel 2013 Russia Today inaugurò un canale in lingua tedesca, chiamò a dirigerlo Manuel Ochsenreiter, giornalista noto per essere tra i columnist di Zuerst!, rivista neo-nazista tedesca, che si è assai speso nell’accusare la rivoluzione ucraina di Maidan di essere “nazista”. Ochsenreiter non era certo caduto sulla via di Damasco, bensì su quella di Mosca, nella quale tutto è finalizzato a screditare le democrazie europee e l’occidente in generale. Compito peraltro non difficile alla luce delle molte ipocrisie e dei molti mali che attanagliano le democrazie moderne. A questo scopo, RT ospitò un programma condotto da Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che nel mettere all’indice l’ipocrisia e gli abusi delle democrazie occidentali, e degli Stati Uniti in testa, diventava cavallo di Troia della propaganda russa.
CAPITOLO 3 – Il lancio di Sputnik News
La fine di Ria Novosti
Il 9 dicembre 2013, con decreto presidenziale, Vladimir Putin ha deciso la chiusura di RIA Novosti, storica agenzia di stampa russa. Erede del Sovinformburo, l’ufficio che coordinava il flusso di informazioni e le attività anti-naziste durante la Seconda guerra mondiale, RIA Novosti è stata l’agenzia di informazione di epoca sovietica, con uffici sparsi in 120 paesi. Dopo la caduta dell’URSS, l’agenzia è passata sotto il controllo del ministero dell’Informazione distinguendosi per obiettività, al punto da acquisire una buona credibilità in ambito internazionale.
La nascita di Rossiya Segodnya
La chiusura dell’agenzia fu motivata dal Cremlino con ragioni economiche. Ragioni che non convincono alla luce dell’enorme quantità di denaro che lo stato russo ha investito in quegli anni in Russia Today. La realtà dietro al velo fu da subito fin troppo evidente: al posto di RIA Novosti venne creata Rossiya Segodnya (Russia Oggi, in italiano, da non confondersi con l’emittente Russia Today) alla cui testa fu nominato Dmitry Kiselyov, già giornalista televisivo di punta conosciuto per le sue dichiarazioni intolleranti e ingiuriose nei confronti degli omosessuali e per la strenua difesa delle politiche governative. Kiselyov andava a rimpiazzare Svetlana Mironiuk, che aveva avuto il merito di dare all’agenzia un ampio respiro internazionale difendendone autonomia e obiettività.
La nuova agenzia, guidata da Kiselyov, si propose fin da subito come voce del Cremlino, del tutto piegata alla propaganda putiniana. Kiselyov non ha mai nascosto la propria intenzione di “ristabilire una giusta visione della Russia nel mondo” al punto da essere pronto a rovesciare la verità dei fatti, quando necessario: “i valori di democrazia e diritti sono un segno della debolezza morale dell’occidente” ha dichiarato in diretta TV. Dichiarazioni che piacciono a molti, anche fuori dalla Russia: non a caso la figura di Vladimir Putin e il suo modello politico autoritario fanno proseliti in Europa, sia tra la classe politica, sia nell’opinione pubblica – lesta ad abboccare all’amo della propaganda russa allo scoppio della crisi ucraina.
L’ascesa di Sputnik News
Sputnik news viene lanciata nel 2014 da Rossiya Segodnya allo scopo di riunire i servizi precedentemente svolti da RIA Novosti e dalla radio Voce della Russia. Radio Sputnik opera in più di trenta paesi mentre la versione online è diffusa in tutto il mondo attraverso la produzione di notizie nella lingua del paese in cui opera. Le varie versioni nazionali di Sputnik hanno palinsesti e contenuti online differenziati a seconda del tipo di readership e delle peculiarità dell’opinione pubblica locale.
Sputnik è l’arma attualmente più affilata della propaganda russa: sotto indagine da parte dell’FBI, è stata multata dal garante per la libertà di stampa britannico (Ofcom) per violazioni in merito all’obiettività e veridicità delle notizie. Micahel Trumann, giornalista di Die Zeit, ha descritto Sputnik coma parte della “guerra d’informazione digitale” mossa dalla Russia nei confronti dell’occidente attraverso l’immissione nel mercato delle notizie di una grande quantità di fake news atte a “confondere l’opinione pubblica occidentale attraverso una sistematica mistificazione della realtà”. Michael Weiss e Peter Pomerantsev hanno pubblicato un report dal titolo “The Menace of Unreality: How the Kremlin Weaponizes Information, Culture, and Money” in cui evidenziano come i network russi facciano un uso estensivo di teorie cospirative e controfattuali allo scopo di “minare il discorso basato sulla realtà” e sostituirlo con una narrazione fatta di insinuazioni e confuse relazioni tra fatti proposti senza verifica e senza alcun ancoraggio alla realtà.
Una sfida e un’opportunità
Vladimir Putin ha dichiarato di voler “rompere il monopolio occidentale dell’informazione in lingua inglese”. Un’affermazione che tradisce il manicheismo e la paranoia russa, come se nel cosiddetto “occidente” tutti i giornali e i media veicolassero una sola, identica, visione della realtà e non fosse presente quell’enorme concerto di voci che il pluralismo garantisce. Il fatto che in molti paesi europei, a partire dal nostro, la stampa sia effettivamente incapace di proporre visioni alternative e originali della realtà, penetrando i problemi dell’epoca in cui viviamo e preferendo alla ricerca e all’approfondimento un giornalismo copia-incolla, ebbene tutto questo certo favorisce l’ascesa di una “contro-infomazione” che si proponga di scardinare quello che realmente è un monopolio, ma non economico o culturale, bensì della banalità, ovvero un monopolio dell’opinione comune, del politicamente corretto, della sciatteria e della miseria in cui versa il giornalismo europeo, non a caso in crisi. E da questa crisi emergono voci che, proponendosi alternative, sono in realtà megafoni della falsificazione e della mistificazione.
La battaglia contro l’infowar putiniana non si potrà vincere senza riformare in senso più democratico e plurale un sistema dei media che procede, a grandi passi, verso un’asfissiante e consolatoria rappresentazione del reale. La guerra d’informazione mossa dal Cremlino si innesta quindi su una debolezza del sistema dei media occidentale e va affrontata senza isterismi, facendone opportunità per ripensare l’informazione (dalla proprietà dei media alla professione giornalistica) nell’era digitale.
CAPITOLO 5 – L’assalto ai quotidiani europei
La strategia russa per influenzare l’opinione pubblica occidentale passa anche dall’acquisizione di importanti testate giornalistiche europee. Negli ultimi due decenni oligarchi vicini al Cremlino hanno comprato importanti pacchetti azionari di quella che, al tempo dei soviet, si sarebbe detta la “stampa borghese”: France soir, The Indipendent, The Evening Standard, sono gli esempi più noti.
France soir e il banchiere di Putin
France soir è un popolare quotidiano francese. Fondato nel 1944 ha avuto i suoi giorni di gloria negli anni Sessanta, quando vendeva oltre un milione di copie. Alla fine del 2008 le vendite segnavano ormai il minimo storico, con una circolazione di appena 23mila copie. Fu allora che la Sablon International, compagnia registrata in Lussemburgo e detentrice del 19,9% del capitale sociale di France soir, fece un’offerta per aumentare la propria quota all’85%. Nel gennaio 2009 il Tribunale di Lille, che aveva giurisdizione sul caso, diede luce verde all’operazione e Alexander Pugachev, figlio del potente oligarca russo Sergej, divenne proprietario della testata. Sergej Pugachev aveva all’epoca un patrimonio che Forbes stimava in due miliardi di dollari. Proprietario della Mezhprombank (International Industrial Bank – IIB), Pugachev era noto come “il banchiere di Putin” e fu l’artefice, nel 2009, dell’accordo tra Parigi e Mosca per la vendita di quattro portaerei francesi classe Mistral, due delle quali sarebbero state poi costruite nei cantieri navali che lo stesso Pugachev possedeva a San Pietroburgo.
In pochi mesi i Pugachev trasformarono France soir in un tabloid sul modello del britannico Sun, incrementando notevolmente il numero di copie vendute, ben 87mila nel 2010, attraverso campagne di stampa scandalistiche e giornalismo spazzatura di cui fecero le spese soprattutto i politici del partito socialista. Nel 2011, durante un’intervista televisiva, Alexander Pugachev dichiarò la propria simpatia per Marine Le Pen. Da quel momento France soir si prodigò nel diffondere le ragioni del Front National. Non a caso la liaison dangereuse tra Marine Le Pen e Vladimir Putin muoveva allora i primi passi. La parabola di France soir finì malamente nel 2012, quando un nuovo crollo delle vendite costrinse Pugachev alla liquidazione e al fallimento. Sorte peggiore per Sergej Pugachev: scaricato da Vladimir Putin, è stato accusato dalla giustizia russa di corruzione e malversazione in merito all’insolvenza della Mezhprombank e nel marzo 2017 ne è stata chiesta l’estradizione in Russia.
Il dissidente a metà, Lebedev e l’Indipendent
Alexander Lebedev è stato un agente del KGB prima di accumulare, negli anni rapaci della liberalizzazione del mercato russo, un patrimonio pari a tre miliardi di dollari diventando uno degli oligarchi più in vista del paese. Nel gennaio 2009 Lebedev, già proprietario – insieme a Gorbacev – del quotidiano russo Novaya Gazeta, acquista per il simbolico prezzo di una sterlina il quotidiano londinese Evening Standard. Un’operazione che il Guardian definì “sbalorditiva” sottolineando come “per la prima volta nella storia un agente segreto straniero diventasse padrone di una testata britannica”.
Lebedev si presentò come un oligarca “di opposizione” chiamando a testimone della sua vocazione democratica l’esperienza come proprietario di Novaya Gazeta, il giornale in cui scrisse anche Anna Politkovskaya. Dovrebbe però far riflettere come Novaya Gazeta sia l’unico giornale indipendente rimasto in una Russia che, sistematicamente, censura ogni voce critica. Il regime russo, come ogni autoritarismo competitivo, ha bisogno di un’opposizione che, tuttavia, viene cooptata all’interno del sistema di potere. Non a caso Lebedev è stato (ed è) proprietario di quote azionarie in molte aziende di stato russe, da Gazprom ad Aeroflot: compagnie strategiche per la Russia cui nessun oppositore reale potrebbe partecipare. Lebedev è stato anche il padrino politico di Aleksej Navalny, il ‘blogger’ che oggi rappresenta nel mondo la dissidenza russa, aiutandolo – nel 2012 – a entrare nel board di Aeroflot.
Quando nel 2010 l’oligarca acquisì anche il quotidiano Indipendent, il mondo giornalistico britannico andò in fibrillazione. Luke Harding, storico corrispondente del Guardian a Mosca, scrisse: “Lebedev is in bed with Kremlin” come a dire che il lettone di Putin era grande abbastanza per tutti. Nel 2012 arrivò la conferma della cooperazione tra Putin e Lebedev: in occasione delle elezioni presidenziali, l’oligarca finanziò il Fronte Popolare, partito con cui Putin sfidò (e vinse) l’establishment politico russo raccolto in Russia Unita e che l’aveva messo in discussione.
Attraverso l’Indipendent e l’Evening Standard, Lebedev si impegnò a difendere le ragioni del Cremlino durante la crisi ucraina: senza mai scadere nella retorica propagandistica à la Sputnik, l’Indipendent si pose come voce fuori dal coro incontrando i favori di quanti, nel Regno Unito, non avevano apprezzato le supposte ingerenze dell’occidente nell’orto di casa russo. L’oligarca dissidente, allineandosi agli interessi del Cremlino, rimarcava la propria appartenenza a quel sistema di potere mostrando come l’indipendenza, nel suo giornale, fosse solo nel titolo e non nei fatti.
Deviazioni ucraine, Firtash e l’assalto a Euronews
L’emittente Euronews è un canale multilingue europeo, trasmesso in 13 lingue, con sede a Lione, finanziato dalle emittenti nazionali associate e dall’Unione Europea. Vi partecipa anche RTR, la televisione di stato russa. Secondo alcuni osservatori, tramite la propria quota, il Cremlino intende influenzare l’emittente. Tuttavia a minacciare l’indipendenza dell’emittente non è stato il Cremlino, almeno non direttamente: è infatti l’oligarca ucraino Dmytro Firtash, legato alla mafia, già arrestato a Vienna per corruzione, vicino al Cremlino ma anche al presidente Poroshenko, che nel 2015 – tramite il proprio gruppo editoriale Inter media group (IMG) – sigla un accordo milionario con l’emittente europea. Una mossa non piace a Kiev che oscura le frequenze di Euronews nel paese accusando Firtash di voler usare il canale per dare voce alla propaganda del Cremlino. La vicenda, dai risvolti poco chiari, si risolve nel 2017 con la richiesta di estradizione dell’oligarca ucraino da parte degli Stati Uniti, che lo accusano di corruzione.
L’accordo con l’oligarca Firtash era, da parte di Euronews, un disperato tentativo di evitare la crisi che, nel 2016, avrebbe comunque investito l’emittente portando a una politica di tagli draconiani. La crisi di Euronews ha quindi aperto una breccia agli interessi degli oligarchi vicini al Cremlino. Un copione che potrebbe ripetersi visto lo stato di salute del giornalismo europeo, da anni in crisi di liquidità e quindi vulnerabile a questo tipo di infiltrazioni. Uno scenario assai cupo per i cittadini i quali, oltre alle fake news di Sputnik e Russia Today, potrebbero trovarsi vittima di un sistema di informazione così falsificato da superare i peggiori incubi di orwelliana memoria.
CAPITOLO 6 – La disinformazione ai tempi di Maidan
di Giovanni Catelli
La situazione creatasi in Ucraina durante la rivolta di Euromaidan, e la conseguente caduta del regime di Yanukovich, non hanno rappresentato un fulmine a ciel sereno per Mosca, ma rientravano nelle eventualità strategiche previste per il paese “fratello”. Già dai tempi della rivoluzione arancione, nel 2004, le peggiori opzioni riguardo all’Ucraina erano state prese in considerazione, in un periodo caratterizzato da un’intensa attività dell’intelligence USA riguardo alle cosiddette “rivoluzioni colorate“, che in quegli anni destabilizzarono violentemente l’orto di casa di Mosca, come in Kirghizistan e soprattutto in Georgia, dove con il presidente Saakashvili la Russia trovò un palese avversario.
La persuasione occulta delle televisioni russe
La situazione in Ucraina, nonostante i timori, poté essere ricondotta in termini di pacifica convivenza, nonostante i deboli tentativi del presidente Yushenko di orientare il paese verso l’Occidente. Negli anni successivi, però, i problemi creatisi riguardo al transito del gas russo verso l’Europa e alle morosità dell’Ucraina nel pagamento dello stesso, iniziarono a scavare, da parte russa, una spirale di sfiducia e sotterranea ostilità. L’Ucraina non era più ritenuta un partner affidabile, e i media televisivi russi, ormai posti sotto il totale controllo del potere, iniziarono a ripetere slogan secondo cui l’Ucraina “ruba il nostro gas“, e “vive alle nostre spalle”; l’opinione pubblica iniziò ad assuefarsi all’idea che l’Ucraina si stava trasformando in un paese ostile, profittando al tempo stesso della generosità russa.
Il termometro del cambiamento si ebbe tra familiari e parenti che vivevano divisi tra Russia e Ucraina: nelle conversazioni telefoniche e ancor più nelle visite in Russia gli ucraini iniziarono a sentirsi rimproverare coi toni usati dalla televisione; amici e conoscenti iniziarono a raffreddare i rapporti, con totale sorpresa di chi giungeva in visita. La persuasione occulta iniziava a mostrare la propria efficacia e a preparare il terreno per il futuro. Qualunque decisione politica o economica negativa riguardo all’Ucraina sarebbe ormai stata giustificata dall’atteggiamento “ostile e profittatorio” degli ucraini, vissuto ormai come un dato di fatto acquisito dall’opinione pubblica. Il primo fondamentale passo per scavare un solco di sfiducia e ostilità verso il popolo fratello era stato compiuto.
Lo snodo politico della Crimea
Il secondo step fu la manovra progressiva posta in atto nei confronti della Crimea. Si iniziò a far notare quanto storicamente la Crimea fosse territorio russo, giunto all’Ucraina solo in seguito ad una incomprensibile decisione amministrativa di Krusciov; fu ribadita la condizione di Sebastopoli come città martire in cui l’Armata Rossa aveva eroicamente combattuto l’invasore nazista; si iniziò soprattutto a proporre legalmente un percorso semplificato per concedere il passaporto russo ai cittadini della Crimea, nonostante che fosse impossibile per un cittadino ucraino possedere la doppia nazionalità. Gli esperti dell’area iniziarono a comparare la situazione con quella dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, dove la Russia era intervenuta militarmente in modo più o meno esplicito, notando forti parallelismi, e paventando una prossima escalation anche per la Crimea.
L’importanza strategica della base di Sebastopoli è sempre stata determinante per la Russia, in grado da sola di giustificare anche una guerra: le trattative periodiche con l’Ucraina per l’allungamento della concessione per la base erano vissute dalla Russia con sempre maggiore fastidio e imbarazzo; il prolungamento della concessione fino al 2042 ottenuto dal governo amico di Yanukovich aveva disteso gli animi, ma la sostanza del problema non mutava, ed era palese l’insofferenza russa per il fatto di non controllare liberamente una città e una base considerati sacri per la propria identità storica e strategica.
Già nel 2008, al tempo della guerra fra Russia e Georgia, l’ Ucraina sostenne esplicitamente la Georgia, il presidente Yushenko volò a Tbilisi l’undici agosto, a guerra ancora in corso, e dichiarò pubblicamente di vendere a quel paese ingenti quantitativi di armi. Inoltre, la tensione più grave con la Russia si ebbe il 14 agosto, quando Yushenko emise un ordine che limitava i movimenti della frotta russa nel Mar Nero, basata a Sebastopoli: secondo quell’ordine, il comando della flotta russa doveva comunicare con un anticipo di 72 ore i propri movimenti, e l’Ucraina poteva decidere se consentirli o vietarli. In quel momento la tensione in Crimea divenne palpabile: oltre ad un possibile scontro fra le due flotte militari, russa e ucraina, dato che la Russia affermava di non riconoscere l’ordine, si ebbe la sensazione che la Russia potesse davvero tentare il colpo di mano, già da qualche anno temuto dagli esperti più avveduti, anche in conseguenza delle minacce ucraine di non rinnovare il trattato che concedeva alla Russia la base di Sebastopoli, e che sarebbe scaduto nel 2009.
Fra i tatari di Crimea si avvertì un’ondata di preoccupazione: essi temevano oltre ad un’invasione, anche atti di violenza da parte della maggioranza russa della penisola, che notoriamente disponeva di armi, nascoste in vista di un potenziale conflitto civile con i tatari (anch’essi comunque in possesso di quantitativi di armi). Per alcuni giorni la tensione nella penisola fu palpabile, e forse la Russia fu tentata già allora dall’ipotesi dell’annessione: disponendo a Sebastopoli di 25 mila uomini, 338 navi da guerra e 22 jet, non avrebbe certo avuto difficoltà ad impadronirsi della Crimea, come non ne ha avute a maggior ragione nella primavera del 2014, quando l’esercito ucraino era paralizzato dopo i fatti del Maidan. Probabilmente, in seguito a quella crisi, vennero elaborati i piani definitivi dell’operazione, che sarebbe stata posta in essere in un momento più propizio, coinciso poi con la caduta del regime di Yanukovich a Kiev.
Euromaidan fascista e altre falsificazioni
L’inizio della rivolta di Euromaidan, con la sua specifica carica antirussa, ed il progressivo indebolimento del regime di Yanukovich con il crescere della protesta, fecero scattare il passo definitivo della propaganda e della preparazione militare. Le televisioni russe descrivevano la situazione in Ucraina con toni da tregenda, descrivendo l’Ucraina e Kiev nelle mani di una “Junta” fascista di tipo sudamericano, nominando le forze della protesta come “banderovci“, ovvero seguaci di quel Bandera che era stato collaborazionista con i nazisti durante la seconda guerra mondiale, pur di combattere il potere sovietico, intervistando falsi cittadini ucraini (impersonati da attori) per offrire testimonianze tanto vibranti quanto false, e creando ad arte menzogne clamorose come quella del bambino crocifisso dai soldati di Kiev, contando sul dato scientifico che dimostra come l’emozione creata da una notizia falsa è molto più potente e indelebile della successiva dimostrazione che l’evento in questione sia stato inventato.
Zombirovanie, le vittime della propaganda
Le popolazioni ucraine delle regioni di confine, oltre che della Crimea, che potevano ricevere i canali televisivi russi, vennero colpite da questa propaganda, che è tuttora avvertibile nelle zone prossime ai territori delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, con una sensibile modificazione delle opinioni e delle valutazioni della realtà. In russo, i telespettatori vittime di questa propaganda vengono definiti “zombirovanie” ovvero resi come zombie dalla ossessiva propaganda. La cinica deformazione della realtà e l’incitamento all’odio verso i “traditori” ucraini ha condotto a drammatiche separazioni tra famiglie, interruzioni di rapporti fra parenti, rotture di amicizie, divorzi, ha spezzato legami decennali nelle famiglie i cui membri si erano trasferiti per lavoro in Russia, ha creato una frattura quasi insanabile tra popoli fratelli che avevano convissuto con totale identità di cultura e formazione per tutto il periodo sovietico, senza motivi di rancore o rivalità. Soprattutto questa drammatica evoluzione dei rapporti tra le popolazioni è una delle responsabilità più gravi da ascrivere alla politica di disinformazione russa riguardo all’Ucraina. Naturalmente la guerra portata nelle province di Donetsk e Lugansk, con il suo carico di ventimila morti fra civili e militari (cifra imprecisa per difetto) rappresenta una decisione di gravità incalcolabile per l’attuale amministrazione russa, che segna, qualunque sarà l’esito del conflitto, una responsabilità storica difficile da cancellare.