La Catalogna non è una questione interna alla Spagna, è un tema universale. Non perché la regione sia soggetta ad apartheid oppure a qualche forma di dominio militare – condizioni queste che le consentirebbero di rivendicare l’autodeterminazione, principio (appunto) universale – ma perché pone un tema epocale che trascende i confini iberici e persino europei: il tema della nazionalità. Un tema che si credeva sepolto sotto le macerie del Novecento e che invece risorge prepotente in un’epoca nella quale si vive lo spaesamento di una modernità accelerata, ipertrofica, globalizzata, e in cui i cittadini vedono ridursi la propria sovranità politica in favore di organizzazioni economiche internazionali sentite come minacciose, iperuraniche, orwelliane.
Un tema buono per tutte le confessioni politiche, a seconda del pulpito da cui si fa la predica. Poiché il primo limite che s’incontra nell’affrontare la crisi catalana è concettuale. Le categorie politiche, le moderne teorie antropologiche e sociologiche – su tutte l’eccezionale Imagined Communities di Benedict Anderson – non rispondono appieno alla domanda sulla nazionalità catalana. Essa ci sfugge. La si coglie solo osservandola al monocolo: è la lotta di un popolo contro la soverchieria fascista, per alcuni; l’esito parossistico di egoismi economici, per altri; è l’etnocentrismo dei plebisciti farlocchi; è esercizio di democrazia reale; è figlia del peggiore nazionalismo, oppure rivoluzione anarchica; è la lotta contro Francisco Franco redivivo, oppure l’eco di una fotografia di Capa; è scenario balcanico o Europa dei popoli.
Si è cercato, tutti, un responso al quesito – se Barcellona avesse o non avesse il diritto – come se bastasse una legge a mettere fine a tutto, a riposarci le coscienze. Ma una sola lente non mette a fuoco, servirebbe l’occhio esagonale della mosca, uno sguardo – impossibile – a 360 gradi.
Alcuni fatti certo aiutano a chiarire. L’arresto di Jordi Turull, candidato presidente della Catalogna, e di altri quattro leader indipendentisti, Carme Forcadell (già presidente del parlamento catalano), Raul Romeva, Josep Rull e Dolors Bassa (ministri sotto Puigdemont) hanno dato il segno della repressione poliziesca e della persecuzione politica poiché il reato contestato – sedizione – è un reato politico, un reato che attiene alla sfera dell’opinione e della fede. Non hanno, questi leader, messo i fucili in mano alla folla, non hanno usato violenza né hanno invitato a farlo, si sono attenuti al confronto istituzionale forzandone, certo, le regole. La forzatura è stata grave, irresponsabile, e – unitamente alla reazione del governo centrale spagnolo – ha spinto la situazione verso un punto di non ritorno. La calma di questi mesi è solo apparente. La Catalogna è uscita dai titoli dei giornali ma resta una ferita aperta.
Non è con la repressione che si risolverà il problema. La Spagna è oggi debole e divisa. La cesura è compiuta, il solco è scavato, la fiducia compromessa, la convivenza lacerata. I manifestanti a Barcellona gridavano «Llibertat!».
Il modo in cui si è trattata la questione catalana, tuttavia, è una risposta brutale a un problema reale: l’etnicismo, il localismo, sono d’attualità in Europa proprio a causa di quelle iperuraniche organizzazioni sovranazionali che, lontano lontano, sembrano toglierci libertà. A ben vedere è quella la «Llibertat!» invocata dai manifestanti, non quella da Madrid. Occorre guardare la luna, non il dito che la indica. Giusta o sbagliata che sia, l’esigenza è reale e diffusa in buona parte del vecchio continente.
La crisi catalana diventa così un accesso da cui intravedere il futuro. A seconda del modo in cui verrà – o non verrà – risolta, l’Europa, tutta attraversata da fervori non dissimili, tesa comunque nello spasimo morale della ricerca di una giustizia, ne uscirà diversa. L’esito di questa crisi determinerà gli anni a venire e il modo di immaginarci comunità, nazioni, stati. E lo farà in modi inattesi. La frantumazione degli stati nazionali (che sono, quasi tutti, multinazionali) potrebbe giovare alla formazione di quel “superstato europeo” che taluni vagheggiano e altri paventano.
E questo è il paradosso: i micro-nazionalismi – che nascono come reazione al potere politico ed economico delle organizzazioni sovranazionali, che sono il risultato di chimere di autogoverno – in realtà espongono i cittadini a decisioni prese altrove, facilitando la penetrazione e il controllo dei poteri “sovranazionali” cui le piccole patrie non hanno la forza di opporsi. Forse le piccole patrie – catalane, padane, balcaniche – sono la via verso la servitù, verso la perdita di quella libertà gridata in piazza e, per converso, il vecchio stato (multi)nazionale rimane la migliore garanzia per i diritti di cittadinanza. A Barcellona dovrebbero pensarci.
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