Viktor Orbán, ha vinto le elezioni parlamentari ottenendo il terzo mandato alla guida del paese. Il suo partito, Fidesz, ha ottenuto il 49,5% dei voti. Al secondo posto il partito di estrema destra Jobbik. L’affluenza è stata del 69%, molto alta per l’Ungheria. Alla luce di questi dati, la stampa nostrana non ha trovato di meglio che ripetere la solita solfa, ovvero che è “una vittoria del populismo”, di un “tiranno” da cui salvare genti ignare e innocenti, del peggiore “nazionalismo” e che – questa sono riusciti a dirla in una rete all-news nazionale – “Jobbik è un partito che sta più a destra di Orban, anche se non si sa come sia possibile”. Conformismo e fastidio.
Non se ne può più. Si assiste ormai a un fiorire dell’uso del termine “populista” per definire qualsiasi forma di governo o di pensiero non coerente con la dottrina liberale. Il termine, che ha un’accezione negativa, viene usato per delegittimare un vasto spettro di possibilità politiche: protezionismo economico, nazionalismo paternalista, corporativismo, euroscetticismo, conservatorismo, ma anche idee di democrazia diretta o forme di socialismo rivoluzionario: tutto (e il contrario di tutto) sembra potersi contenere in questa parola.
Un uso siffatto del termine non solo è sbagliato – lo si confonde con demagogia – ma realizza il più grave dei peccati intellettuali, quello che potremmo chiamare erbafascismo, ovvero la tendenza a mettere in unico fascio – totalizzante e totalitario – le erbe più disparate, talune propriamente erbacce, varia gramigna, ma anche qualche semplice da cui magari si potrebbe ricavare medicamento o balsamo per le cancrene dell’epoca nostra. Di più, si corre il rischio di sbagliare diserbante con l’effetto di veder la malerba resistere e ancor più proliferare.
Tacciare Viktor Orbán di populismo è fuorviante poiché non è al popolo che egli si rivolge, non è degli ungheresi che si fa campione, ma della nazione eterna, quella cattolica, quella sopravvissuta ai terrori del Novecento, quella repressa – ma non domata – del 1956, anno della Rivoluzione in cui l’Europa tutta volse altrove lo sguardo o, peggio, si dichiarò carrista. Sono elementi solo in apparenza secondari, lontani nel tempo. In Ungheria, come in larga parte dell’Europa centro-orientale, la storia è ora e qui. Non è un passato rinchiuso nei musei o nei sassi inerti delle civiltà sepolte, è corpo vivo che cammina nel presente. Il passato è attualità. E guardando al passato Orbán dice che la fedeltà all’Europa non è un dogma, visto che l’Europa tradì la nazione ungherese in quel 1956. E dice che essere partner va bene, ma che un partner dice anche dei “no”, altrimenti è un servo. Il paragone, fatto da Orban tempo addietro, tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea non è casuale – e nemmeno così peregrino, a dirla tutta.
L’Ungheria è uscita dalla cattività sovietica grazie alle forze sotterranee che hanno tenuto vivo lo “spirito” della “nazione” anche negli anni più bui. Sono termini che possono farci sorridere, qui in occidente, ma su cui nessuno – in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia – si sognerebbe di ridere. La libertà di oggi è, per quei paesi, il risultato di una tenacia spirituale che ha consentito alla “nazione” di sopravvivere alla barbarie nazista, all’occupazione sovietica, ai tentativi di annichilimento culturale o linguistico.
Nel caso ungherese, il bagno di sangue del 1956 ha prodotto sotterranei rivoli che, negli anni Ottanta, sono riemersi carsici dal sottosuolo dando vita a movimenti come il Magyar Demokrata Fórum o il Fiatal Demokraták Szövetsége (Fidesz), l’alleanza dei giovani democratici fondata dal venticinquenne Viktor Orbán nel 1988. Si tratta di movimenti che proponevano un’alternativa democratica per il proprio paese, lottando contro il regime comunista ma anche contro l’idea – quella della rivoluzione socialista – che essi incarnavano.
Una lotta dalle profonde radici, di cui questi movimenti si sentivano – e ancora si sentono – gli eredi. Eredi di quella che, in Europa centro-orientale, chiamano controrivoluzione. Un termine che, da questa parte d’Europa, fa subito pensare alla reazione, alla Vandea, all’oltranzismo cattolico, ma erano dette “controrivoluzioni” la Primavera di Praga, la Rivoluzione ungherese del ’56, quella di Velluto, l’azione di Solidarność. Oggi, per i leader politici di molti di quei paesi, è controrivoluzione quello che noi chiamiamo “euroscetticismo“.
All’indomani della caduta del Muro di Berlino, l’Ungheria – come tutti i paesi della regione – ha dovuto costruire dal niente istituzioni moderne, tali da garantire ai cittadini diritti e libertà. Tuttavia, mentre da un lato procedeva nello state-building, ricostituendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi penoso, unico nella storia. L’integrazione europea era però un obiettivo primario, sia per ragioni di ordine geopolitico, sia per poter accedere ai cospicui aiuti economici messi a disposizione per l’integrazione. Un processo voluto e cercato, quindi, in nome di quel “ritorno all’Europa” che fu parola d’ordine del periodo post-sovietico. Il corto circuito tra Budapest e Bruxelles – come anche tra Varsavia, Praga, Bucarest e Bruxelles – è il risultato di quel penoso passaggio di sovranità, ceduta non appena ritrovata.
Nelle more di quell’epocale passaggio, arriva Viktor Orbán che, citando Argentieri, “ha dato un senso all’essere ungheresi” restituendo al paese la sovranità perduta – sovranità, altra parolaccia ormai. Nel farlo ha scomodato la storia antica e recente, ha riabilitato la figura di Miklós Horthy (obliterandone il carattere fascista ed esaltandone il ruolo di difensore della patria) e ha calcato la mano sull’unicità etnica dei magiari. A tempo perso, ha usato la crisi dei migranti per ribadire come la nazione ungherese sia sempre, da sola, in prima linea contro l’invasore. In questo senso il suo nazionalismo è stato strumentale ma non si deve credere al mero opportunismo: Orbán, abbiamo visto, è dagli anni Ottanta che porta avanti una visione nazionalista venata di spiritualismo e senso mistico. Va letta in tal senso la recente riforma della Costituzione (da cui è stata cancellata la parola “repubblica”).
Il primo ministro magiaro sembra voler incarnare l’eredità del passato ergendosi ad antemurale contro i nemici di oggi: l’europeismo dogmatico, il colonialismo finanziario, ma anche la falsa utopia degli “stati uniti d’Europa”. Nemici veri, non solo fantasie di un piccolo premier col cappello da Napoleone. La stessa visione messianica del proprio compito, lo spinge però a forzare le regole della democrazia: il mancato rinnovo delle licenze ai media di opposizione non è illegale, ma è un evidente azione di censura; il sistema elettorale vigente, che ha ridisegnato i collegi al fine di rendere quasi impossibile il successo dell’opposizione (il famoso gerrymandering), non è illegale ma nemmeno dimostrazione di cristallino amore per la democrazia rappresentativa.
Una democrazia in crisi, secondo Orbán, colpita a morte dai modelli di “società aperta” che derivano dalle dottrine di Bergson e Popper e che oggi, piuttosto malaccortamente, si associano al pensiero liberale. Più che a Popper, il premier ungherese guarda a Soros la cui organizzazione, Open Society, è impegnata nel paese promuovendo e finanziando attività e gruppi che portano avanti idee politiche liberali. Un nemico interno da debellare, un fantoccio da agitare davanti all’opinione pubblica. Tanto più che il premier ungherese è un liberista sfegatato: quel che non ama è il liberalismo ma le aziende che delocalizzano in Ungheria gli piacciono parecchio.
Anche grazie a questa doppiezza, Orbán ha portato il suo paese fuori dalle secche della crisi economica. I dati macroeconomici sono confortanti. Ha rivendicato libertà di azione in ambito politico ed economico rispetto ai vincoli europei, nel bene e nel male. Ma ha forzato la mano alla democrazia, pur senza oltrepassare limiti che altrove – Italia compresa – non siano già stati superati da tempo. Ha strumentalizzato paure e ansie degli ungheresi. Ha voluto incarnare un certo spirito nazionale, a metà tra ipocrisia e fede. È un leader di destra (ma non estrema destra!) che non ama l’opposizione e che crede nella dittatura della maggioranza, patologia della democrazia.
Ma nell’attuale contesto politico europeo, è un leader necessario al suo paese. Il suo successo è il risultato di un’epoca convulsa, fatta di incertezze e forze sempre meno controllabili dai cittadini, un’epoca in cui il potere è lontano anni luce, chiuso nelle stanze delle organizzazioni sovranazionali. Spaesata, la piccola Ungheria si è data un capo. E spaesati tutti, in molti ci hanno visto un modello: l’orbanismo, che non è derubricabile a semplice “populismo”, è diventato per molti una possibile risposta alla progressiva sottrazione di sovranità popolare. E sovranità, non è sovranismo. Come popolare, non è populismo. In tal senso viene da chiedersi se Orbán non sia l’uomo sbagliato per una giusta causa.
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